Roberto Smaldore

Le mille contraddizioni della Bosnia. L’Autopijaca di Sarajevo


Il turista occidentale che visita Sarajevo rimane solitamente colpito dal fatto che i muri di molti edifici conservino ancora i segni dell’assedio attorno al quale la città fu cinta per quasi quattro anni consecutivi. Dopo quasi trent’anni dalla fine della guerra, l’impressione è che del connubio di architettura ottomana, austro-ungarica e jugoslava che ha caratterizzato questo crocevia dei Balcani occidentali, ad oggi non sia rimasto nient’altro che un cumulo di rovine. La città ha subito uno sviluppo contraddittorio nelle ultime due decadi ed è proprio la parola “contraddizione” che permette di carpire al meglio la realtà attuale di Sarajevo, capitale dell’altrettanto contraddittoria Bosnia-Erzegovina. La Bosnia rappresenta un’eccezione in Europa per il suo assetto istituzionale: un complicato sistema di pesi e contrappesi partorito dall’ingegneria diplomatica occidentale nel 1995 pose fine alle ostilità tra serbi, croati e bosniaci. Quantomeno a quelle esplicite, perché a ventisette anni di distanza questo sistema si rivela sempre più una gabbia che favorisce la divisione a scapito del raggiungimento dell’unità.

La contraddizione del paese si legge anche nella stessa città di Sarajevo. Accanto alla miseria delle campagne che la circondano e dei quartieri periferici della città, convive l’opulenza del centro storico e dei centri commerciali che negli ultimi anni si sono potuti moltiplicare grazie a ingenti finanziamenti provenienti dai paesi arabi del Medio Oriente, quali Arabia Saudita e Qatar. I centri commerciali sono uno squarcio di occidente in una città che sembra situarsi esattamente nella metà dei due opposti punti cardinali: qui i sarajevesi che se lo possono permettere bramano lo stilo di vita occidentale e il turista può sentirsi a casa nel nonluogo per eccellenza che caratterizza la nostra società dei consumi.

La nonlocità dei centri commerciali alla quale una parte di Sarajevo sembrerebbe aspirare contrasta con la vivacità dei mercati situati nelle periferie. In bosniaco il mercato si chiama pijaca, parola che sembra un calco dell’italiano piazza, il luogo che nella storia della nostra comune cultura europea designa la socialità per eccellenza. Le guide turistiche dedicano spazio sia ai mercati che ai centri commerciali: nel primo caso esse lo fanno per sfamare la presunzione del turista che crede di poter conoscere una città ed i propri abitanti in pochi giorni degustando il prodotto tipico; nel secondo invece per conferirgli l’opportunità di una via di fuga dalla diversità, offrendogli la possibilità di ritrovare sé stesso nella catena di fast food che frequenta abitualmente. Le guide parlano solitamente dei mercati di Ciglane e di Markale che sono quelli considerati più caratteristici: nel secondo, che si trova a ridosso del centro storico, domina il cibo, nel primo invece, situato in una zona periferica non distante dal centro, si possono trovare anche vestiti e utensili per la casa. Se si passa in città vale certo la pena di fare un salto in questi mercati, anche se fuori dai radar turistici ve n’è un altro ben più grande e importante. Nel sobborgo di Stup, a circa venti minuti di tram dal centro, sorge l’Autopijaca di Sarajevo.

Autopijaca significa letteralmente “mercato delle automobili” perché, stando a quello che raccontano i locali, una volta qua si compravano e vendevano automobili: adesso è invece una meta di pellegrinaggio per tutti i cittadini di Sarajevo in cerca di frutta, verdura, vestiti e cianfrusaglie. Ogni domenica mattina si radunano qui centinaia di commercianti provenienti da tutta la Bosnia per piazzare le proprie merci e migliaia di visitatori vi si recano a fare la spesa o in cerca di affari. Molti di loro sostengono che sia un posto pericoloso per gli stranieri: effettivamente si tratta di uno di quei mercati dove è bene tenersi stretti i propri effetti personali e dove la mancata conoscenza della lingua può penalizzare l’acquirente in fase di contrattazione. Nonostante ciò, l’Autopijaca rimane un luogo ameno e amichevole, all’interno del quale è difficile non sentirsi a proprio agio.

Numerose sono le bancarelle di vestiti. L’offerta comprende sia vestiti di seconda mano che vestiti nuovi: molti giovani vengono qua per rifornirsi di scarpe, tute e giubbotti contraffatti perché la moda è tiranna e impone anche a chi non se lo può permettere di starle al passo. Accanto al vestiario, ampio spazio è dedicato al cibo: frutta, verdura, ma anche e soprattutto carne: di pesce invece non se ne trova perché nessun commerciante è attrezzato per la sua conservazione. La tradizione della carne lavorata e trasformata con spezie e conservanti, quello che noi chiamiamo salume, persiste anche in Bosnia dove è possibile trovarne di tutti i tipi. Qui a Stup numerose sono le bancarelle che vendono la suho meso, letteralmente “carne disidratata”, è un salume che ricorda molto la nostra bresaola ricavato dall’affumicatura della carne di manzo.

 

Accanto al cibo da impacchettare e degustare a casa, all’Autopijaca è vasta l’offerta di cibo da consumare in loco. Qui basta una griglia e un po’ di tavoli all’aperto per fare una ćevabdžinica dove per la modica cifra di cinque marchi (due euro e cinquanta) è possibile gustare una sostanziosa porzione di ćevapi. Le salsicce balcaniche sono servite nel pane piatto lievitato, la lepina, e accompagnate da cipolla cruda e salse come il kajmak, cremoso e delicato derivato della panna, e l’ajvar, piccante e decisa mistura di peperoni, peperoncini, aglio e melanzane. Non è certamente un posto per palati e odorati sensibili: le griglie sfrigolano dall’alba a mezzogiorno e avvolgono il mercato in una coltre di fumo dalla quale è difficile trovare riparo.


Se l’odore di carne alla griglia di prima mattina può ragionevolmente portare alla nausea, l’Autopijaca offre anche altri tipi di cibo e bevande: nei kafići è possibile degustare l’espresso così come il caffè bosniaco, preparato e servito all’interno della džezva, un pentolino di rame dal manico allungato. Nelle prime settimane di autunno si possono anche assaggiare le caldarroste preparate, per così dire, “alla bosniaca”, cioè arrostite dentro la centrifuga di una vecchia lavatrice.

Il cibo rimane però un elemento accessorio del mercato. Chi viene all’Autopijaca ci viene perché sa che qui può concludere ottimi affari. Il mercato delle pulci è affollato da venditori che espongono su teli adagiati al suolo le proprie mercanzie e da acquirenti che contrattano i prezzi dei prodotti. Il reparto musica e film ospita CD piratati dei migliori artisti della musica jugoslava, DVD e videocassette a luci rosse. Nel reparto elettronica è invece possibile acquistare telecomandi, frullatori, ferri da stiro, macchine fotografiche e telefoni usati dei quali è meglio non chiedersi la provenienza. L’Autopijaca ospita anche un reparto ferramenta dove è impossibile non trovare viti, bulloni e trapani che facciano al caso proprio.

Anche i collezionisti trovano pane per i loro denti nelle numerose bancarelle che rivendono oggetti provenienti da un mondo che sembra ormai lontano nel tempo e nello spazio. I cimeli del passato comprendono tra le altre cose numerose spillette che il regime socialista della Jugoslavia fabbricava per commemorare la propria storia e banconote d’epoca, talvolta veri e propri pezzi sopravvissuti al degrado della storia, talvolta pallide fotocopie di valute del passato. C’è da chiedersi in quale soffitta sia stato recuperato il copricapo delle Handžar, il reparto delle SS che il regime nazista reclutò tra i musulmani bosniaci durante l’occupazione della Jugoslavia. Per una cifra irrisoria è possibile portarsi a casa il reperto di una storia oscura e sanguinosa che testimonia la gravità del passato che affligge il paese: un passato nel quale la Bosnia ha mostrato di ricadere spesso nella propria storia, ma che, a dispetto di quanto si possa pensare, non rappresenta affatto la normalità.

Nel momento in cui ci si addentra infatti nella moltitudine di persone che affollano il mercato, in un attimo si dissolvono tutti questi pregiudizi. Enver prima di farsi fotografare nasconde il tabacco e le sigarette dal bancone. Ha 64 anni e viene da Mostar, la città principale della regione dell’Erzegovina. La sua biografia si intreccia con la storia di tanti bosniaci che trent’anni fa hanno vissuto il dramma di una guerra fratricida le cui ferite sono ancora aperte. Lui è di famiglia musulmana, anche se proviene da una regione a maggioranza croata: negli anni ’90 ha servito nell’esercito bosniaco e mostra con orgoglio i video che possiede sul cellulare di lui con le armi in braccio. Dice di non essere mai stato nazionalista, ma al contrario di aver deciso di imbracciare le armi per difendere la propria terra e l’idea di una Bosnia multietnica. Adesso è in pensione e con la moglie gira per i mercati vendendo frutta, succo di melograno e altri prodotti alimentari.

La vicenda di Enver è simile a quella di molte altre persone. Il vortice di violenza che ha risucchiato la Jugoslavia negli anni ’90, frutto della volontà di élite politiche senza scrupoli di conservare la propria posizione di potere e della miopia della comunità internazionale, non è stato così totalizzante come i nostri pregiudizi vorrebbero farci pensare. Nei luoghi comuni con i quali i nostri libri di storia trattano la guerra dei Balcani, le storie di chi ha provato a sottrarsi alla narrazione dominante non trovano spazio e la situazione politica che vive oggi questa terra è indice del fatto che l'odio ha avuto la meglio sulla costruzione della pace. Tutto questo il turista occasionale non lo vede, perché il suo occhio cattura una realtà filtrata e la sua mente la processa secondo schemi pre-impostati: così, tra il miele e il sangue che caratterizzano questa terra è quest’ultimo quello che prevale nella descrizione che il turista porta con sé di questo posto. Un paese che non riesce ad emanciparsi dal proprio passato, stretto in una morsa che soffoca la possibilità di una riconciliazione.

Eppure, nonostante la cancrena che affligge la situazione politica di questo paese, le persone sono vive. L’Autopijaca rappresenta così un ritratto molto più autentico della città di Sarajevo nel quale un occhio attento può scorgere tutte le contraddizioni che fanno bella e dannata questa terra. Viene da pensare che sia un bene la sua assenza dai radar delle guide turistiche perché nella banalità di un mercato si possa preservare l’eccezionalità di una città che vive nonostante tutto.

Roberto Smaldore, Sarajevo, ottobre 2022

 


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