Le merende d’infanzia in spiaggia

 

Quando ero bambino (fine anni Cinquanta-primi Sessanta) passavo le vacanze al mare a Varazze, sulla riviera ligure di ponente. Nel pomeriggio sulla battigia passavano diversi venditori. I vucumprà ancora non erano comparsi all’orizzonte e gli ambulanti si concentravano in tre categorie, due alimentari e una no. La più suggestiva, nel mio ricordo infantile, era quella dei venditori di Krapfen. Vestivano maglietta e pantaloncini corti bianchi su cui portavano un altrettanto corto grembiule, berretto pure immacolato, erano a piedi nudi e reggevano a tracolla un contenitore in stile sigaraia colmo di olezzanti frittelle coperte da un foglio di cellophane che le manteneva calde. Sudavano sette camicie, poveretti, procedendo tra uno stabilimento balneare e l’altro, con il proprio carico bollente sotto il sole estivo. Il loro grido arrivava prima ancora che se ne scorgesse la sagoma: “Krapfen, krapfen caldi, krapfen!”, che alle mie orecchie suonava: “graffe, graffe caldi, graffe”! Lo attribuivo alla pronuncia meridionale del venditore, ignorando che le graffe fossero una versione napoletana dei bomboloni e che lui potesse effettivamente, e con ragione, imbonire la propria merce con quel nome, anche se le frittelle in questione erano più simili a quelle che in dialetto piemontese si chiamavano friceu che non agli esemplari autenticamente partenopei. Non erano gonfi e sferici, ma larghi e piatti e giungevano in spiaggia piuttosto ammosciati; dalla frittura, nonostante il tempismo e gli sforzi degli addetti ai lavori, passava un bel po’ di tempo, ma profumavano deliziosamente e, all’atto dell’acquisto, venivano arricchiti con un passaggio nello zucchero. Per me, anche in Liguria, evocavano l’odore di una fiera piemontese, quella del 4 novembre, festa padronale di San Carlo nella natia Nizza Monferrato, fritti a raffica nel grande carrozzone su ruote che vendeva torrone e nocciole zuccherate e si affiancava ai baracconi delle giostre mandando inconfondibili effluvi che riempivano l’intera piazza. Profumi per me proibiti perché, in una circostanza e nell’altra, la diffidenza della famiglia nei confronti di quei prodotti ammetteva rarissime concessioni al piacere di degustare una bisunta quanto prelibata frittella. In spiaggia, mentre gli altri bambini sguazzavano ancora semi nudi tra le onde, tedeschi e olandesi spudoratamente addentando i meravigliosi krapfen, io consumavo sotto l’ombrellone la fetta di dolce domestico preparato dalla nonna, protetto da una famigerata giacca di spugna al riparo da correnti d’aria, umidità nefasta, cibi filistei. La gazzosa (unica bibita senza coloranti) che mi veniva talora accordata al bar dei Bagni Vittoria, in luogo del classico tè conservato nel thermos, doveva essere a temperatura ambiente e, secondo le mitologie famigliari, andava tenuta un po’ in bocca prima di essere ingerita perché perdesse un po’ di gassatura.

 

Sulla spiaggia di Varazze, stretto nella giacca di spugna bianca e arancione, 1960? 1961?

 

La seconda categoria di venditori ambulanti da spiaggia offriva il cocco. “Cocco bello, cocco! Cocco fresco, coccooooooooo”! In questo caso la freschezza era l’attrattiva determinante, a differenza dei krapfen che vantavano calore, e una volta ogni tanto, con maggiore frequenza rispetto alle altre tentazioni, mi veniva concessa una fetta di quella delizia esotica, estratta da un secchiello pieno d’acqua e ripulita mille volte prima che la potessi addentare. Mangiare fuori pasto era considerato letale: “non ti rovinare l’appetito” era uno dei ritornelli ricorrenti e il desiderio di trasgressione da parte mia cresceva esponenzialmente.

L’ultima categoria di ambulanti da spiaggia, la meno interessante per me, era costituita dai fotografi che, trascinando pesanti animali di peluche (leoncini, scimmie, orsacchiotti), cercavano di convincere recalcitranti mamme a far immortalare i loro pargoli a cavalcioni o abbracciati all’animale. Chi cedeva alle profferte riceveva un talloncino, presentando il quale al negozio di turno qualche giorno più tardi, poteva ritirare le stampe delle fotografie. Nessuna attrazione da parte mia in questo caso: indifferenza totale.

La giornata finiva quasi sempre, e sia buone maniere sia fobie sanitarie in questa circostanza non trovavano nulla da eccepire, con una passeggiata dopo cena fino alla rinomata gelateria Novecento per un cono “tutto limone”. A casa, per i soliti assilli igienici, si prediligeva il ricorso ai prodotti industriali confezionati sdegnando le offerte dei chioschi o dei bar dove i gelati venivano venduti sfusi. Il gelato da passeggio era stato sdoganato negli anni Trenta, quando anche le signore avevano rotto il tabù del consumare cibo in pubblico, addirittura per strada, e dato inizio alla moda del cono da gustare bighellonando. Col senno di poi suppongo che la scelta del gusto fosse stata motivata, ancora una volta, dall’assenza di coloranti nel gelato al limone, ma lo ricordo come ottimo e non legato a sacrifici o ripieghi che avevano invece coinvolto i ghiaccioli: sempre e soltanto limone o orzata!

Con queste premesse è chiaro che per l’iniziazione ai cibi di strada avrei dovuto attendere l’emancipazione dalla famiglia e dalle sue regole. Sarebbe arrivata a Torino, all’inizio degli anni Settanta, con l’iscrizione all’università. Indimenticabili restano i panini di Castagno (via Gramsci angolo via Lagrange) con würstel, senape e crauti, comprati dal marciapiede attraverso una finestrella che dava sulla via e mangiati finalmente con disinvoltura per strada passeggiando sotto i portici di via Roma o di piazza Carlo Felice. “Ma che bontà, ma che bontà!”

 

 

I friceu, o friciò, piemontesi si preparavano soprattutto a carnevale ma, come già ho scritto, nei miei ricordi d’infanzia sono legati alle due fiere che si tenevano a Nizza Monferrato, quella di San Carlo in novembre e quella del Santo Cristo in aprile. In entrambe le occasioni la piazza principale si colmava di baracconi e di banchetti langaroli che vendevano torrone e nocciole e friggevano friceu inondando l’intera zona di olezzi che si mescolano nelle reminiscenze con la colonna sonora di musica e imbonimenti che arrivavano dalle svariate giostre. Era di rigore, anche per compensare il mancato acquisto delle frittelle ritenute malsane, portare a casa un sacchetto di squisite nocciole zuccherate bianche. Questa è la ricetta che propongo per concludere le mie rivisitazioni infantili.

 

Ingredienti: 120 gr. di nocciole piemontesi tonde e gentili, 120 gr. di zucchero,

120 gr. d’acqua.

 

Mettere gli ingredienti in una padella antiaderente e scaldare a fiamma media mescolando in continuazione. Si formerà uno sciroppo. Quando il liquido sarà evaporato togliere dal fuoco e continuare a mescolare. Evitare che lo zucchero inizi a caramellare e diventi scuro. Si deve attaccare alle nocciole cristallizzandosi e restando di un bel colore bianco. In teoria si conservano a lungo in barattoli di vetro o di latta, ma la pratica conferma che spariranno appena messe in tavola.

 



Nocciole zuccherate piemontesi 


 

G. Morandi, Fatti mandare dalla mamma (a prendere il latte), 1962. Colonna sonora dell’estate 1962 (avevo dieci anni) al jukebox del bar dei Bagni Vittoria di Varazze.

https://www.youtube.com/watch?v=7eLBR4xQt_4

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